La passione, la ricerca, la dedizione, il rispetto per la natura e per la tradizione come cultura. Sono questi i fattori che determinano la qualità di un prodotto e i valori condivisi da Vincenzo Lucidi, produttore dello zafferano delle colline picene, che oggi si mette a nudo e ci racconta la sua scelta di vita in questa intervista.
Lo zafferano, una spezia che nasce da un bellissimo fiore che conquista i sensi in molti non conoscono. Ma qual è l’ambiente più adatto per la coltivazione dello zafferano?
Lo zafferano è una pianta che ha buone capacità di adattamento: prolifera in un clima di tipo mediterraneo, ma si adatta bene anche ad un clima continentale con inverni rigidi ed estati anche molto calde e secche, come ad esempio avviene in Iran, dove difatti viene prodotta circa il 95% della spezia che circola sui mercati mondiali. Dalle nostre parti predilige terreni franco-argillosi e ben drenati, esposti a sud, nella media ed alta collina.
Possiamo considerare lo zafferano una tipicità del nostro territorio? Da quanto tempo viene coltivato in questa area?
Nel Piceno ci sono varie aziende che, specie negli ultimi anni, si stanno dedicando alla coltivazione di questa preziosa spezia. Che possa considerarsi una tipicità non so dirlo – nel senso che lo zafferano nel nostro territorio ha una storia alle spalle – ma nelle aziende attuali, almeno a quanto mi risulta, si coltivano cormi, ovvero bulbi di zafferano che sono stati acquistati altrove – molto spesso a Navelli – (zona dell’aquilano che ha avuto il riconoscimento DOP) e poi vengono coltivati qui.
Una singolarità: un piccolo vanto di cui vi posso raccontare sono proprio i miei cormi, che effettivamente da un numero imprecisato di generazioni venivano effettivamente coltivati proprio qui
Come è nata questa passione per questa spezia e come ha cambiato la sua vita precedente?
Il mio incontro con lo zafferano è stato casuale e devo dire singolarmente fortunato. Alla metà degli anni ’70 dello scorso secolo, i miei nonni se ne andarono a vivere fuori, da uno zio, lasciando in giardino alcune piante e fiori che coltivavano abitualmente. Tra queste c’era anche un fiorellino, che stranamente fioriva poco prima dell’inverno ed aveva anche un aspetto decisamente gradevole.
Io ero solo un ragazzino, ma col passare degli anni la passione per la natura e le piante mi spinse a cavarli più volte e ripiantarli in posti differenti. Più tardi, dopo gli studi universitari, aumentò notevolmente la mia passione per il giardinaggio, per cui quei fiorellini, divennero molto presto oggetto di un’indagine più accurata. Fu così che scoprii che si trattava di zafferano. Il passo successivo fu scoprire, tramite mia madre, che la nonna lo coltivava abitualmente per poterne estrarne “i pistilli” (cfr, stigmi) utili ad ottenere la cagliatura vegetale del latte ovino e il tipico formaggio fatto in casa.
Fino alla generazione dei miei nonni, nelle nostre zone e sopratutto in campagna, era del tutto normale che ogni famiglia contadina possedesse un piccolo numero di pecore, che forniva alla famiglia la carne, il latte, la lana e il formaggio per il sostentamento quotidiano. In genere questo piccolo gregge era di un numero così esiguo, che per ottenere la cagliatura del latte non si usava solo il caglio ottenuto dallo stomaco dei vitelli – troppo preziosi per essere utilizzati solo per tale scopo – ma ne veniva creato uno di tipo vegetale. E’ qui che entrava in ballo il prezioso alleato: lo zafferano.
Con un ulteriore indagine, scoprii che questa tecnica era già nota agli antichi romani, che, con tutta probabilità, l’appresero dagli etruschi. Ecco quindi che è del tutto probabile che nelle nostre campagne questa pratica possa essere stata tramandata di madre in figlia e che sia arrivata fino a due, tre generazioni fa .
Oggi, purtroppo, con la scomparsa dei piccoli greggi familiari è scomparsa anche questa coltivazione, che aveva questo specifico ed esclusivo compito.
Una mia anziana zia mi raccontava che quando erano bambini, veniva detto loro che lo zafferano “non si poteva mangiare perché era velenoso!”. Questa bizzarra invenzione sicuramente è servita per garantire la trasmissione di generazione in generazione di questa antichissima pratica legata alla cagliatura vegetale del latte ovino.
Se la intendiamo in questo senso potremmo dire dire che lo zafferano è una tipicità del nostro territorio?
Bhe si! A tal proposito da un paio d’anni sono in contatto con l’ASSAM e la CRA (Unità di ricerca per l’orticoltura) di Monsampolo del Tronto per far rientrare il “mio zafferano” tra gli ecotipi protetti dalla Regione Marche. Ma parliamo di questo zafferano, con questa storia e con queste origini, non certo di quello che oggi le aziende comprano a Navelli (AQ) o a Cascia (PG) piuttosto che a Spoleto, in Toscana o magari in Sardegna, altra terra riconosciuta per lo zafferano DOP!
Se vi abbiamo incuriosito seguiteci ancora nel prossimo racconto, nel quale vi racconteremo come coltivare e preservare i pistilli di questo preziose fiore.
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