Spesso, parlando di api sentiamo dire che si tratta di un “superorganismo”.

Al di là delle definizioni degli studiosi – ad es. Wilson e Sober nel 1989 riassumono il concetto di superorganismo così: “un insieme di singoli individui che insieme posseggono l’organizzazione funzionale che è implicita nella definizione formale di organismo” – possiamo semplificare dicendo che ciascun individuo è dipendente dalla colonia per la sua sopravvivenza e può essere assimilato ad una singola cellula del corpo di un organismo superiore, il quale non può fare a meno delle singole unità (cellule), sane e perfettamente funzionanti per garantire la sopravvivenza dell’intero sistema vitale.

Sempre per gli studiosi, le principali caratteristiche che dovrebbero essere presenti per fregiare un organismo dell’aggettivo “super” sono: Elevato numero di individui, Compartimentalizzazione, Capacità di difesa, Selezione naturale sull’intera colonia.

Al di fuori del sistema di riproduzione e delle strategie di accoppiamento evolutisi nel tempo per migliorare il coordinamento ed il risparmio di energie e l’ottimizzazione delle risorse, le api, suddividono il loro superorganismo così:

  • le api bottinatrici garantiscono approvvigionamento e nutrizione
  • l’ape regina ed i fuchi (maschi) rappresentano l’apparato riproduttivo
  • le api ventilatrici e quelle acquaiole fanno si che all’interno dell’alveare la temperatura sia costante, sui 35-37C ° circa, sia in estate che in inverno
  • le guardiane si occupano della sicurezza e difesa dell’alveare
  • le nutrici pensano alla secrezione e produzione
  • le spazzine alla escrezione e pulizia
  • costruzione dei favi è affidata alle api ceraiole.

L’alveare come si trova in natura – definito arnia se artificiale (un gruppo di arnie disposto da un apicoltore sul terreno viene chiamato apiario) – risulta in stretta relazione con il mondo che lo circonda grazie al meraviglioso sistema di comunicazione fatto di segni e danze di cui le api, e solo le api, sono in possesso.

Fin dall’antichità l’uomo ha tenuto in grande considerazione le api ed apprezzato i loro prodotti come rimedio a prevenzione per patologie, come conservante e come delizia per il palato. Il miele viene utilizzato da almeno 12.000 anni, come conferma la pittura rupestre, mentre le prime tracce di arnie costruite dall’uomo risalgono al VI millennio a.C. circa.

Il miele per i Greci era il “cibo degli dei” e l’alimento per la lunga vita.

Già 3000 anni fa, la medicina ayurvedica, considerava il miele purificante, afrodisiaco, dissetante, vermifugo, antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico e cicatrizzante. Per ogni specifico caso era indicato un differente tipo di miele.

I Romani, che ne importavano grandi quantità, lo apprezzavano come dolcificante e conservante.

Gli apicoltori dell’Antico Egitto seguivano con le proprie arnie la fioritura delle piante lungo il Nilo già 4000 anni fa.

Nel Codice di Hammurabi gli apicoltori erano tutelati dal furto di miele dalle arnie.

La straordinarietà delle api era quindi apprezzata già da tempi antichi. Ciò che non sappiamo è se l’importanza ambientale di questo superorganismo fosse già stata compresa.

La frase attribuita ad Einstein secondo cui “se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra, all’uomo non resterebbero più di quattro anni di vita” è ormai nota. Di fatto, molte colture dipendono dalla loro azione impollinatrice: le api selvatiche sono i più importanti insetti impollinatori e determinano, con i loro viaggi da un fiore all’altro, una notevole variabilità dal punto di vista genetico nelle piante visitate.

A differenza delle api domestiche che producono il miele e lo accumulano aiutate e condizionate dall’intervento dell’uomo cosicché anche noi possiamo beneficiarne, le api selvatiche producono il miele solo ed esclusivamente per il proprio sostentamento.

Negli ultimi anni, le api selvatiche sono sempre meno a causa dell’alterazione e della perdita dei loro habitat naturali: l’uso di concimi e pesticidi chimici in agricoltura possono infettarle ed i cambiamenti climatici mettere in pericolo i loro sistemi di autodifesa naturale, come la sciamatura.

Non solo miele, propoli, cera e pappa reale, bensì il 35% della produzione di cibo a livello mondiale dipende dal lavoro di impollinazione degli insetti.

L’ape generalmente percorre un raggio di circa 3km di distanza dall’alveare, per cui se le zone limitrofe sono inquinate, l’ape è destinata a morire.

Oggi grazie alla tecnica del nomadismo e della transumanza in realtà già utilizzata in antichità lungo il Po come lungo il Nilo, possiamo preservare questo superorganismo e garantire all’agricoltura l’impollinazione dei frutteti.

L’apicoltura nomade consiste nello spostare gli alveari in funzione della presenza di piante nettarifere.

Gli spostamenti sono spesso funzionali a variazioni di altitudine, e al procedere della stagione, cominciando dalle pianure e vallate precoci tra aprile e giugno, seguendo le fioriture più tardive di luglio e agosto, per finire con la raccolta delle melate d’abete, prima di tornare a svernare in pianura.

Le api mellifere sono fondamentali nella catena alimentare e se scomparissero, con loro se ne andrebbero migliaia di specie vegetali.